mercoledì 23 giugno 2010

Tasso privo di rischio, il caro estinto

Ritorno oggi, dopo N mesi di latitanza, sulla mia rubrica di divulgazione economica, complici alcune piacevoli chiacchierate ieri con dei cari amici in Università: l'argomento che mi "solletica" oggi e che ritengo possa essere di sicuro interesse (per "addetti ai lavori" e non) è il c.d. "tasso privo di rischio" (o risk free rate).

Perché dedicare un intervento sul blog ad un concetto apparentemente astratto/accademico come il tasso privo di rischio?
Perché questo particolare saggio d'interesse è il perno su cui ruota tutta la moderna finanza aziendale (e non solo), in particolar modo rappresenta le fondamenta su cui costruire la valutazione d'impresa: tradotto in soldoni, se e quando vi capitasse di dover vendere/acquistare una qualsiasi attività (industriale o finanziaria) ancora adesso non potreste prescindere da questo fantomatico risk free rate, al fine di dare un valore a ciò che state vendendo/acquistando. Ho detto "ancora adesso" per un motivo che cercherò di spiegare più avanti...

Per capire i problemi odierni di questo importantissimo attore della finanza moderna, è necessario capire cosa esso rappresenta (o cosa esso dovrebbe rappresentare, visto che siamo sempre al confine tra realtà ed accademia).


Per parlare di tasso d'interesse privo di rischio è necessario prima introdurre i concetti di rischio sistematico (e non diversificabile) e rischio specifico (e diversificabile):
  • il rischio sistematico è, per usare una semplificazione, il rischio insito nel sistema finanziario, inteso come un unico corpo su scala mondiale. Sempre a grandi linee è il rischio che un operatore (come può essere un qualsiasi individuo che investe in Borsa) deve accettare, se vuole partecipare alle transazioni economico-finanziarie: questo tipo di rischio comprende macro-fattori non governabili dalla razionalità umana, come ad esempio guerre, calamità naturali, tensioni politiche, etc. Proprio per queste ragioni il rischio sistematico è anche detto "non diversificabile", in quanto non esiste alcun modo per attenuare ex ante, da parte degli operatori, il rischio che un investimento vada male per colpa di un tornado o di un golpe;
  • il rischio specifico è per certi versi complementare al rischio sistematico (nel senso che si somma sempre a quest'ultimo, aumentando la grandezza del rischio complessivo) e rappresenta le criticità che ogni singola attività finanziaria (azioni, obbligazioni, etc.) o reale (terreni, immobili, imprese, etc.) possiede, al di là dei fattori di rischio "ambientali", che corrispondono al rischio sistematico. Un esempio aiuterà a capire: il titolo FIAT potrà scendere sia perché una catastrofica alluvione ha distrutto la sua fabbrica in Polonia (rischio sistematico, non ponderabile ex ante), sia perché l'impresa ha tanto debito e quindi gli investitori temono possa fallire (rischio specifico dell'impresa FIAT, che pertanto è possibile evitare o "diluire", per l'appunto con un'operazione di diversificazione dei propri investimenti, per esempio comprando anche titoli della Volkswagen).
Capita la differenza tra i due tipi di rischio, comprendere cosa sia il risk free rate è (quasi) un gioco da ragazzi.
Riprendiamo per un attimo il concetto di rischio sistematico (e non diversificabile): poiché esso è de facto la concretizzazione dell'azione ineffabile del Fato e/o dello Spirito Santo, il rischio sistematico non è un fattore che consenta di discriminare tra un investimento od un altro. Fatalisticamente si può dire che ogni attività economica sia vulnerabile all'imprevedibile: ancora una volta semplificando, se ogni investimento è soggetto al rischio sistematico, allora NON vale la pena considerare il rischio sistematico come una variabile importante per fare le proprie scelte economico-finanziarie.
Tradotto in soldoni, "se deve succedere, succede!"

Abbiamo pertanto capito che chi investe è come se non tenesse conto dell'esistenza del rischio sistematico, perché altrimenti l'economia si paralizzerebbe oggi stesso, per l'incapacità evidente di prevedere l'imprevedibile (un po' come se un imprenditore pretendesse di aprire la propria attività, sapendo però già ora se avrà successo o meno). Il rischio sistematico è come se non esistesse...
La rischiosità "vera e propria" per gli operatori economici diventa così quella espressa dal rischio specifico, che è in qualche misura prevedibile e per questo contrastabile, con adeguate politiche d'investimento (ovvero la c.d. diversificazione del rischio [specifico]).

Siamo arrivati al "nocciolo" del problema: cos'è quindi il tasso d'interesse privo di rischio?
E' il rendimento offerto ad un investitore da parte di una teorica attività economico-finanziaria (sia essa un titolo azionario, un terreno o una casa), che non presenti alcun rischio insito, se non quello sistematico: se immaginiamo che questa immaginaria - oserei dire "mitica" - attività senza rischio specifico presenti un tasso di rendimento del 2% (ma potrebbe anche essere l'1% od il 5%), ebbene il 2% sarebbe anche l'agognato tasso d'interesse free risk!

L'importanza del risk free rate è data dal fatto che esso rappresenta idealmente un "pavimento" (sotto cui non si può andare) per gli investitori, i quali così sanno di non poter/dover accettare investimenti che rendano meno del tasso privo di rischio, pena l'effettuazione di un pessimo affare!
Corollario di tutto questo è la definizione di "premio al rischio (specifico)": l'investimento ad un tasso risk free equivale al desiderio di non sopportare nessun rischio, che non sia quello sistematico condiviso da tutti (ovvero si desidera un rischio specifico pari a zero: atteggiamento spesso denominato " bassa/nulla propensione al rischio"); se invece un operatore è disposto ad assumersi una quota maggiore di rischio (ovvero ad accettare anche del rischio specifico), egli vorrà essere remunerato con un rendimento superiore al tasso risk free e questa differenza è per l'appunto detta "premio al rischio (specifico)".


Terminata la fase "didattica", veniamo al perché del titolo di questo intervento, che pare dare per morto il tasso d'interesse privo di rischio.

Sarà apparso evidente a tutti che la definizione data sopra di risk free rate è immersa fino al collo di accademia e teoria e nei fatti è impossibile trovare un'attività economico-finanziaria che rispetti le caratteristiche di assenza di rischio specifico e quindi offra un rendimento senza rischio (specifico).

La cosa non è sfuggita nemmeno agli operatori economici, i quali però avevano (ed hanno) bisogno di identificare il "pavimento" rappresentato dal risk free, pena l'incapacità di capire se un investimento sia o meno preferibile ad un altro: come fare? Anche in questo caso si è ricorsi ad una "finzione", che però oggi mostra tutto il suo "lato oscuro"...
Date le definizioni di tasso privo di rischio, qualcuno ha pensato che l'entità capace più di tutte di offrire un rendimento che assomigliasse da vicino al risk free fosse niente meno che lo Stato: o meglio i titoli di debito pubblico (in Italia BOT, CCT, CTZ e BTP) emessi dai Paesi sovrani, per finanziare il proprio deficit di bilancio. L'idea di fondo era che uno Stato non possa fallire, malgrado in realtà esempi in contrasto ce ne fossero molti già diversi anni fà, e per questo i rendimenti offerti dai suoi titoli fossero esenti dal rischio specifico (o quasi).

Ovviamente furono presi in considerazione solo i titoli di debito di Paesi altamente industrializzati, sviluppati e "stabili" (come sostanzialmente tutti quelli dell'ormai ex G7), il cui rendimento divenne il famoso "pavimento" per gli investitori: se si doveva valutare un investimento in un'attività economico-finanziaria, si metteva sempre in relazione il suo rendimento con quello dei sopracitati titoli di Stato (o con un rendimento degli stessi aggiustato con il premio al rischio); chiaramente se l'attività in questione rendeva meno che un T-Bill americano, l'investitore sapeva già di dover lasciar perdere. Tutto molto (relativamente) comodo, tutto molto (relativamente) semplice...

Senonché oggi ci si è svegliati con la consapevolezza che anche uno Stato sovrano può fallire, come una qualsiasi impresa - vedasi il default (de facto, se non de jure) della Grecia e le sempre più difficoltose condizioni di primari Paesi come Spagna, Italia, Gran Bretagna e - udite, udite! - Stati Uniti.
Come può definirsi quindi risk free il rendimento su titoli di entità - gli Stati - che possono fallire od andare in seria crisi nei pagamenti? E se non c'è più un tasso privo di rischio (seppur approssimato) a cui far riferimento, com'è possibile fare accorte valutazioni su investimenti e valore delle attività?

Sono anche queste le sfide e le macerie che la Grande Crisi lascia sul tappeto del mondo di domani...

Lord Tojo

2 commenti:

Alessandro Massa ha detto...

ciao vitto, credo che la storia del free rate si possa inserire nel filone di quelle illusioni che hanno infine provocato la crisi economica: mi riferisco in particolare alla finanza strutturata e all'idea che spezzettando il rischio questo potesse scomparire, ma anche in generale alla deregulation e alla cieca fiducia nella sola disciplina di mercato che ha dominato gli USA da Reagan.
è incredibile pensare che dallo scoppio dei mutui subprime ad oggi non siano ancora state introdotte regole più restrittive per il mercato di derivati over the counter, assolutamente libero e portatore di un rischio sistemico molto difficile da calcolare precisamente.

Financialmarketslab ha detto...

Hai fatto delle osservazioni interessanti....e pensare che negli ultimi 8 secoli di stati sovrani falliti ne abbiamo avuti diversi...il problema che l'uomo economico ha la memoria corta...fatica ad imparare dai propri errori....
Financial Markets LAB
www.financialmarketslab.blogspot.com